Andres Villani
Andres on stage al concerto Live in Arona della Corale Valla
Sassofonista, flautista, jazzista, insegnante... Andres Villani è uno di quei musicisti, uomini d'arte e di cultura che lasciano costantemente un'impronta nella contemporaneità, qualunque cosa facciano, e per i quali la clonazione sarebbe utile ed anche auspicabile. Fintanto che ce n'è uno solo, però, vediamo di approfittarne e di conoscerlo meglio.
Andres, com'è nato e come si è sviluppato il tuo rapporto con la Corale Valla?
Non ricordo esattamente l'anno in cui è iniziato il rapporto, ne sono passati parecchi. Ricordo che Francesco mi fu presentato in occasione di un mio concerto a Pavia, una sera in cui mi venne a vedere assieme ad amici in comune. Lo conoscevo di nome, e conoscevo anche il Coro, dato che già all'epoca Francesco aveva iniziato a collaborare con alcuni musicisti di Pavia, che mi avevano parlato molto bene di questa formazione corale e della sua interazione con con altri generi musicali e con una bella produzione, che con gli anni è diventata via via sempre più grossa... Iniziai quindi a collaborare come sassofonista alla registrazione di un loro disco, a cui poi sono seguiti anche vari concerti.
Quindi mi pare di capire che ti ha colpito fin da subito questo tipo di Gospel estremamente contemporaneo, che rappresenta un po' un unicum, sicuramente per Pavia e forse anche per l'Italia...
Assolutamente. A livello musicale è un Gospel molto ricco, con una componente funky molto forte, che a me personalmente piace moltissimo, perché è estremamente coinvolgente, specie laddove si coniuga così bene con la parte del cantato... Direi forse che chiamarlo ancora Gospel e basta, è riduttivo...
E' uno spettacolo vero e proprio....
Uno spettacolo musicale davvero eccezionale, di cui, ripeto, colpisce soprattutto la ricchezza di presenze: un aspetto corale fortissimo, di grande impatto, musicisti di prim'ordine, voci soliste fuoriclasse...insomma, non se ne trovano di simili tanto facilmente. A Pavia di cori gospel ce ne saranno anche tre o quattro, ma che rimangono ad un livello che sta un po' a cavallo tra l'amatoriale e l'essenziale, con tutto il rispetto. La Corale ha alzato decisamente il livello, e con gli anni è diventata un qualche cosa di totalmente diverso e superiore rispetto a formazioni e progetti analoghi.
Valla Reunion - 2010
La tua esperienza nel mondo musicale, italiano ed internazionale, è davvero vastissima. Che cosa ha influito maggiormente sulla tua formazione?
La famiglia, ovvero il punto di partenza della mia esperienza e della mia formazione. Mio papà era musicista ed era anche il mio insegnante, per cui specie all'inizio la musica è stata un po' un obbligo, per quanto implicito. Ho iniziato a cinque anni con le lezioni di violino, e poi mio papà mi fece avvicinare al flauto, che è il primo strumento con cui è iniziato uno studio musicale serio. Verso i tredici, quattordici anni, facendo i primi saggi, le prime piccole esibizioni, la musica ha iniziato a piacermi sul serio. Sai, sei un ragazzino, vedi che la gente ti ascolta e ti apprezza, che le ragazzine cominciano a guardarti in maniera diversa, e in più ti accorgi che le note più o meno escono bene... la passione alla fine è scoppiata. Tra l' altro mio papà mi dava lezioni a scuola, in classe, per cui mentre studiavo e suonavo, avevo anche la possibilità di conoscere ragazzi della mia età, di farmi nuovi amici, e quindi è nata subito anche la voglia di fare parte di qualche complesso, di qualche band con cui mettermi alla prova. Senz'altro la musica classica è stata, specie all'inizio, il mio ambito di riferimento. Volevo fare il musicista classico e rimanere solo in quel mondo. Poi però le esperienze e le conoscenze più disparate mi hanno portato ad interessarmi anche ad altro, al jazz e al sassofono, a cui mi sono poi dedicato successivamente.
Quindi tu nasci come flautista, giusto?
Si, il sassofono è entrato nella mia vita verso i vent'anni. E quando ho iniziato con il sax, ho dovuto un po' accantonare il flauto, anche perché un nuovo strumento, piuttosto complesso tra l'altro, richiedeva e richiede uno studio pressoché totale. Negli ultimi anni ho cercato di riprendere in mano anche il flauto e di reintegrarlo nella mia attività.
Nel linguaggio di un jazzista, perché tu sei anche un musicista jazz, conta di più la tecnica, la padronanza di uno strumento, oppure l'esperienza, il contatto con le proprie emozioni, con altri musicisti ed esperienze che possono costituire una sorta di fonte di ispirazione tematica? Sai, te lo chiedo perché il jazz è visto un po' come una terra di “anarchia”, e quando si assiste a un'improvvisazione jazz, ci si chiede un po' se in quei momenti fortemente ispirati l' “improvvisatore” pensi di più alle note che esegue o a qualcos'altro...
Si, ho capito cosa intendi. Senza tecnica, non si va da nessuna parte. Un musicista di talento, se studia e, oltre al proprio mondo, esplora anche la tecnica, diventa un fuori classe. Un musicista senza talento, se studia ostinatamente è comunque capace di raggiungere buoni risultati. Ma un musicista di talento che non studia e rimane sempre dov'è, sarà un musicista con grosse pecche, anzi, uno spreco di talento, un'occasione mancata. Lo studio è fondamentale. E' il punto di partenza per formare il tuo linguaggio. Quando poi hai padronanza del tuo strumento, delle scale, della teoria nel complesso e ti senti autonomo, a livello tecnico, sei in grado di dedicarti maggiormente al gusto del “suonare”, all'ispirazione che ne può derivare, alla maniera per coinvolgere ed esprimere la tua anima. Se non sai quali note suonano bene e quali suonano male, se non sai come costruire una melodia, e come muoverti al suo interno...non saprai mai improvvisare. Puoi avere fortuna, e sperare che durante l'esibizione tu riesca ad andare a parare da qualche parte, ma suonare bene, a mio avviso, non significa questo, non significa avere fortuna.
Quindi si può dire che all'”anarchia” ci si arriva dopo, prima si deve passare dalle regole...
Esatto. C'era un musicista, di cui non ricordo bene l'identità, che diceva: “per suonare bene il jazz devi sapere prima tutto, e poi dimenticarlo”... Ed è così. Se prima non conosci bene il tuo mondo, non puoi scegliere che cosa esprimere, che cosa comunicare di questo mondo. Ma la cosa vale un po' in tutti i campi. La conoscenza dello strumento è basilare, se si vuole poi sviluppare un proprio linguaggio autonomo.
E' stato difficile crearti il tuo spazio? Mi spiego: suonando il flauto e poi il sax, è stata dura costruire una carriera, e quindi un'identità musicale, in un mondo in cui forse la fanno un po' da padroni strumenti più commerciali, più... diciamo “da battaglia”, in quanto più facilmente utilizzabili ?
Pavia, Castello Visconteo - 2006
Beh... i miei sono strumenti che un po' di mercato, per così dire, te lo precludono. Nel senso che già per quanto concerne le turnè di musica pop-rock, è difficile che sax o flauto abbiano spazio e possibilità di utilizzo. Forse De Andrè e Fossati sono le eccezioni più importanti. Però c'è da dire che, live a parte, hai la possibilità di lavorare in molti più campi. Puoi suonare in un'orchestra classica come in un quartetto, in un complesso jazz, in televisione... Forse il chitarrista ha meno occasioni di lavoro, meno quantità e varietà di situazioni in cui suonare, ma in quelle in cui suona, suona molto e per mille artisti. Il sassofonista, e ancora di più il flautista, possono variare di più la tipologia di ingaggi, ma sono costretti a “settorializzarsi “ di più.
Appartenendo ad un genere un po' più elitario e meno commerciale, credi che i tuoi strumenti abbiano retto meglio alla crisi del mercato musicale, specie di quello più commerciale?
No. La crisi del mercato discografico ha colpito tutti e limitato il lavoro di tutti, anche dei più grandi artisti. Oramai un disco e una produzione, che coinvolge strumenti anche più particolari come il mio, hanno budget molto più limitati rispetto a prima, e servono solo per fare pubblicità all'artista e a far vendere più concerti. E questo si ripercuote sulla scelta dei musicisti e sulla tipologia di strumenti che è consentito o meno coinvolgere. Questo vale specialmente per l' Italia. All'estero la situazione è un po' diversa. Ad esempio io suono in un complesso jazz, e posso dirti che dalla Svizzera alla Scandinavia per il jazz c'è ancora un mercato molto vasto, ci sono centinaia di festival jazz in cui si può ancora suonare molto, facendo musica di qualità e divertendosi. Ti capita di ritrovarti a suonare in un paesino di cinquemila abitanti, al cui festival vengono però chiamati a suonare cinquanta o sessanta complessi, per cui tu cammini per le strade e trovi decine di palchi su cui a ogni ora si suona e ci si diverte. Se ci si da da fare, si riesce ancora a suonare, bisogna essere molto intraprendenti.
Tu intendi all'estero o anche qui?
Forse anche qui. Certo, la situazione è radicalmente cambiata. Però sopperendo alla mancanza di contatti “spontanei”, con più intraprendenza, più perseveranza, fatta magari di mail, di telefonate, di tante pubbliche relazioni, alla fine dell'anno riesci comunque ad annoverare nel bilancio delle esperienze trenta, trentacinque concerti belli, suonati bene e con soddisfazione.
Secondo te perché all'estero la situazione è diversa? C'è una crisi meno mordente o c'è un sostanziale differenza culturale rispetto a noi?
Io credo che ci siano forti differenze culturali. Sai, benché siamo in Italia, che è la patria della musica classica, e in cui comunque la cultura ha rivestito negli anni un ruolo fondamentale, otto ragazzini su dieci non sono mai andati a teatro, ad un concerto di musica classica, ad un concerto jazz... e non hanno nemmeno l'occasione di ascoltarla in televisione. Ascoltano la musica più commerciale. Allora come puoi pretendere di organizzare un festival di musica jazz anni venti, se la gente non sa nemmeno di cosa stai parlando? All'estero c'è un approccio diverso alla musica e alla cultura. I ragazzini non solo vanno a scuola di musica, ma vanno anche a teatro, vengono spronati e stimolati dai genitori a coltivare anche altri interessi e passioni. Anche la musica suonata nei locali riceve più attenzione, più ascolto, le persone escono e vanno in un determinato contesto apposta per ascoltare una data band, di un dato genere musicale. Mi ricordo che ad esempio a Parigi, dove sono stato per un mese abbondante, e in cui ho suonato in un teatro, ci venivano a vedere le famiglie intere, coi bimbi e con i sacchetti di McDonald...
Che cosa si dovrebbe fare anche qui, per risvegliare l'attenzione della gente verso la musica? Puntare di più sull'insegnamento, sulla scuola?
Ma, la scuola non è messa malissimo, nel senso che tra licei musicali e corsi vari, lo spazio per l'insegnamento della musica c'è. Sono i soldi che mancano, nel senso che nonostante ci sia la volontà di improntare programmi di insegnamento, la mancanza di fondi o l'utilizzo sbagliato dei fondi fa si che no ci sia la strumentazione, o che quella che c'è sia talmente obsoleta che non riesci a farci nulla, perché hai un computer senza programmi, hai una tastiera che da suoni talmente brutti che non la compreresti nemmeno a tuo figlio di tre anni, non c'è possibilità di amplificare un band e fare esibizioni dal vivo, saggi... Bisognerebbe investire di più e meglio. Scuola a parte, le difficoltà del fare e proporre musica pervadono oramai ogni ambito. I concerti sono diventati elitari perché costano troppo. L'Aida all'Arena di Verona è un salasso, ed è proibitiva per quasi tutti, per citare un esempio. Si suona di meno, si guadagna di meno, e si fa sempre suonare gli stessi musicisti. Quei pochi che investono e organizzano oramai vogliono andare sul sicuro, e chiamano sempre i soliti musicisti più o meno conosciuti che bene o male portano sempre gente. E quindi come puoi pretendere che i musicisti giovani e sconosciuti si facciano un nome, possano cresce e migliorare l'offerta della musica dal vivo? Bisognerebbe partire da situazioni ed eventi più piccoli, cercare di far suonare più gente, ed iniziare a cambiare a livello culturale l'approccio della persone alla musica, stimolando la voglia all'ascolto, e quindi anche allo studio e alla partecipazione.
Forse la così detta musica elitaria, all'estero è meno elitaria...
Sicuramente, ma il calcolo è presto fatto: a Roma ci saranno un centinaio di teatri, anzi, forse non arrivi nemmeno a cento; a Parigi ce ne sono seicento, e solo questo la dice lunga.
Valla Reunion - 2010
Anche l'insegnamento riveste un ruolo importante nella tua vita musicale, giusto?
Si, diciamo che oltre ad essere un'esperienza formativa anche per me stesso, l'insegnamento costituisce anche un certezza economica in più, che mi ha permesso e mi permette di avere un'entrata costante, con cui scegliere con maggiore tranquillità e attenzione alla qualità, i progetti che mi coinvolgono come musicista. E poi devo dire che anche a livello personale le soddisfazioni non mancano. Ho avuto alcuni allievi che hanno proseguito e si sono anche fatti un nome. Se riesci a inculcare la passione per la musica, la voglia di suonare in un ragazzino che poi magari prosegue, si iscrive a un conservatorio, riesce poi a vivere di musica e ti riconosce come in buona parte responsabile per tutto ciò, beh... la soddisfazione è davvero tanta.
Come è cambiato negli anni l'approccio dei ragazzi all'insegnamento e alla musica in generale?
Guarda, dipende dall'età. Per quanto concerne i ragazzi di diciassette, diciotto anni, che sono già quasi adulti, l'approccio non è cambiato molto. Sono ragazzi che vengono a lezione già con un background musicale formato, hanno ascoltato molta musica, hanno già parecchie idee ed obiettivi, vivono magari già di musica, e a te spetta il compito di indirizzarli, guidarli attraverso la formazione tecnica, l'insegnamento. La vera differenza rispetto al passato, rispetto ad esempio a quando io ho iniziato a studiare, la esprimono i ragazzini piccoli, riguarda cioè l'approccio dei giovanissimi, per i quali la musica è solo quella che esce dalla scatolina tascabile. Esiste solo ciò che esce dal lettore mp3, e quindi ti rendi conto di come questi tredicenni abbiano un rapporto quasi “tribale” con la musica. Si interessano a quello che va per la maggiore, che canticchiano i coetanei, se lo scaricano, e dopo qualche tempo si stufano e passano ad altro, senza nemmeno chiedersi che cosa ci sia dietro quello che ascoltano, e quello che ascoltano è spesso terribile, si fa persino fatica a chiamarla musica. Ci sono canzoni che sono solo un'accozzaglia di suoni, di rumori, oppure ti capita di imbatterti in brani che si potrebbero definire atonali, ma che poi ti rendi conto che tali non sono, che sono solo errori di chi non è in grado di capire quali accordi stiano bene insieme. Questo è ciò con cui si confrontano i ragazzini di oggi e che un insegnante deve scardinare.
Quindi il ragazzino che si presenta da te per studiare il flauto o il sassofono è una mosca bianca? Una rarità?
E' sempre più raro che l'interesse di un ragazzino per la musica abbia un seguito. Ti faccio un esempio. Se durante la presentazione di una scuola civica alle medie, io facessi ascoltare a una platea di ragazzini “mister saxo beat”, con una bella componente di dance e house music, un bel po' di antenne si alzerebbero. Se poi io prendessi un sax e con alcuni accorgimenti facessi provare a un ragazzino a soffiarci dentro e a emettere qualche nota, il ragazzino e magari pure alcuni amici il giorno dopo si iscriverebbero al mio corso. Il problema è che dopo due settimane si stufano e mollano. Quando invece trovi la persona che persevera e finisce con l'appassionarsi, hai un terreno fertile da coltivare. Puoi davvero formare il gusto di una ragazzo fin dalle fondamenta, e sperare che un giorno possa dare il suo contributo, piccolo o grande che sia, alla musica. La musica è bella, che sia classica, funky, jazz, pop...se è fatta bene rimane ed è in grado di attrarre le persone, e anche i futuri musicisti
Se le tua figlie ti dicessero “papà vogliamo fare le musiciste”?
A sarei felicissimo, anzi, le sprono tutti i giorni... sono loro che non vogliono!!!
Io penso che se una donna diventasse musicista, e riuscisse a combinare l'attività live con l'insegnamento, potrebbe tranquillamente vivere di musica, e direi anche vivere felicemente.
Vivere facendo il musicista è possibile, dipende dai tuoi obiettivi e dal tuo modo di intendere questo mestiere, questa arte.
Qual'è l'emozione più grande che ti ha dato la musica?
Me ne ha date tante... forse l'emozione più grande sta proprio nella gioia, nel senso di soddisfazione che avverti quando finisci di suonare, una sera, e senti e sai di aver suonato bene. Lo stare sul palco assieme ad atri musicisti, fare ciascuno la propria parte ed “arrivare” a chi è lì per ascoltarti, mi infonde una sensazione che è quasi di benessere fisico, e che difficilmente potrei provare in altri ambiti. E poi la musica mi ha regalato tante volte l'emozione di trovare nuovi amici. Quando suono con un musicista in due o tre occasioni, è facile che avverta per costui quell'affetto e quella stima che in genere si prova per gli amici di vecchia data. La musica ti porta a godere della presenza e dell'amicizia di altri esserei umani che hanno un vissuto simile al tuo, hanno esperienze simili da condividere, una stessa passione intorno a cui costruire un dialogo, uno scambio di idee, un progetto per il futuro.
Grazie
Andres con Nicola Oliva, Francesco Mocchi e Dario Tanghetti
Live in Arona 2012
matteo picco