mercoledì 30 marzo 2011

Le nostre interviste: CLAUDIA D'ULISSE

Claudia D' Ulisse 
Alle volte capita di avere la fortuna di conoscere persone semplici. Semplici nella loro straordinarietà, nella gioia e nella bellezza che traspare dall'avere un talento unico, personale, una voce, e dalla voglia di usarla per parlare al cuore di chi, questa voce, ha la fortuna di poterla ascoltare, tante volte magari, anche in questo momento, come sto facendo io... 


Claudia, quanto un artista, una cantante nella fattispecie, è consapevole del proprio talento e quanto serve esserlo? 

Claudia) Secondo me tanto. Quando un'artista prende coscienza del proprio dono, ne diviene di conseguenza consapevole, consapevole di averlo e di poterlo donare agli altri. Anche se la consapevolezza per un artista può essere un'arma a doppio taglio. E' una questione di quantità; più sei consapevole, e più è facile riscontrare determinati atteggiamenti nel tuo modo di vivere la musica, meno lo sei, e più emergono quelle caratteristiche dettate da un' arte che si esprime ed “esce” in maniera più autentica, proprio perché inconsapevole. 

E tale consapevolezza è più un merito o un limite, per un artista? Può, ovvero, rappresentare anche un ostacolo in un percorso di crescita che, si sa, non si dovrebbe esaurire mai? 

C) Questo può succedere spesso, quando manca lo stimolo, quando non vi è la possibilità di essere messi di fronte alla necessità di muoversi, di ampliare il proprio dono; per ciò dicevo che può essere un'arma a doppio taglio, perché quando non si è troppo consapevoli di essere artisti, si cerca di esserlo e di diventarlo il più possibile, e quindi ci si dà da fare, e non si smette mai di progredire; ci vuole consapevolezza ma con misura, per cui assieme alla percezione della presenza, della detenzione di un dono, ci vuole anche la consapevolezza che quel dono non è mai sufficiente, non basta mai, e che quindi si deve continuare a “fare”, affinché ogni giorno ci si possa sentire un po' più realizzati rispetto al giorno prima, e così via... - altrimenti si rimane solo artisti “potenziali”...- Esattamente, potenziali ma mai effettivi... 

Senti, tu sei nata e cresciuta in Abruzzo; la tua presenza a Pavia, al Nord, e d il suo - immagino - conseguente cambiamento di vita ha solo ragioni musicali, professionali, o anche “private”? 

C) Entrambe le cose, ma musicali prima di tutto. E' stata la musica a farmi spostare, perché ho avvertito la necessità fortissima di uscire da una certa realtà, dato che nel posto da cui vengo, pur essendoci la possibilità di cantare e di esibirsi, i contesti professionali e le situazioni artistiche sono gestiti in maniera differente rispetto a Milano e al Nord in generale; vi è una mentalità di fondo completamente diversa. Qui, bene o male, c'è un maggior flusso di persone che seguono la musica, sicché si trovano maggiori possibilità per poterla “fare” e proporre. Avendo la possibilità di confrontarmi di continuo con altre persone, altri musicisti, ho la sensazione di crescere costantemente e di essere sempre in progressione. 

Che cosa significa lasciare la propria terra per inseguire un sogno? 

C) Significa soffrire tutti i giorni. Ogni volta che torno a casa mia, che sento il profumo dell'aria, che guardo negli occhi le persone che amo...anche solo quando sono in macchina e mi guardo intorno, penso: “io sono nata e cresciuta qui, per quale motivo devo soffrire così tanto per la distanza, per il distacco...” e l'unica spiegazione possibile è il mio amore per la musica, che è la sola cosa che mi ha fatto andare via; quindi stare lontano dalla propria terra, dalle proprie origini (lontano in senso chilometrico) è una sofferenza grandissima. Anche se col passare degli anni tale sofferenza si è trasformata, e ha indotto una sorta di miglioramento nella mia personalità musicale, poiché ho cercato di investire il dolore al meglio, di trasformarlo in energia, in voglia di fare, in mentalità; mi sono detta “se devo stare lontano dalla mia terra, che almeno la cosa abbia un senso”, per cui tutto quello che faccio lo devo fare bene, altrimenti non ne vale la pena, e smette di avere un senso lo stare lontano da ciò che amo, il rinunciare alla presenza delle persone che amo, nelle quali risiede la mia forza; ecco io sono dipendente dalle persone che amo, cosa che, essendo queste quasi tutte giù, difficilmente riesco a sostenere... A volte, quando le cose vanno male, penso “ma chi me lo fa fare...”, quando invece le cose vanno bene, quando sento di aver cantato bene, quando scrivo qualcosa di mio... sopporto meglio il dolore perché penso che in fondo ne valga la pena, è un po' un paradosso. Ma oramai ci sono abituata, faccio i conti con un conflitto interiore costante col quale cerco di convivere, stare lontano da ciò che amo, purtroppo, è una necessità. Di certo le stesse possibilità che mi si offrono qui, le vorrei avere in Abruzzo, con la mia famiglia vicino e con la possibilità di poter contare su una serie di circostanze favorevoli che inevitabilmente influirebbero in maniera positiva sul modo di cantare e su ciò che potrei dare. Purtroppo ciò non è ancora possibile, perché come ti dicevo prima giù non riuscirei più a crescere, a fare musica alle condizioni in cui la faccio qui, a confrontarmi con quei musicisti che hanno scelto strade differenti, modi differenti di inseguire un sogno, quel sogno per il quale io ho lasciato la mia terra. 

Sai cosa, ti voglio fare una domanda che mi espone al rischio del luogo comune, ma che ti porgo comunque perché sono assolutamente certo dell'assenza, invece, di luoghi comuni dalla tua risposta: da qui, si ha una certa immagine dell'Abruzzo, di una certa parte di Italia; si pensa cioè al Centro/Sud come ad una terra dove si vive meglio, dove si apprezzano di più certe cose, dove ci si diverte di più, dove si sa fare un uso migliore della vita. Non è un controsenso, quindi, che la musica, una delle parti migliori della vita, pur essendo vissuta con gioia da chi la fa e la ascolta, sia però poco considerata sul frangente professionale, diffusa e sostenuta meno, e peggio, rispetto a quei luoghi dove magari vi è una minore inclinazione e predisposizione al senso di musicalità? 

C) E' un controsenso grandissimo, che però c'è da sempre; in Abruzzo, nel Centro/Sud, al di là delle grandi strutture e delle grandi produzioni, ci sono in generale poche possibilità di lavorare con la musica, perché c'è un'altra mentalità: quando ti presenti al gestore di un locale e ti proponi con un progetto artistico, questo per prima cosa ti chiede di riempirgli il locale, questa è mancanza di cultura musicale, e presenza di una certa mentalità; il che non è solo prerogativa del Centro o del Sud, perché anche al Nord si vivono questi disagi, qui però c'è una maggiore concentrazione di appassionati di musica, c'è una ricezione diversa. Mi spiego meglio: in Abruzzo c'è una grande presenza di appassionati del mare, della montagna, della buona cucina....di tutte quelle cose che il territorio può offrire e che rientrano anch'esse, in un certo senso, nell'accezione del termine cultura; ma alla musica è data minor considerazione, non perché non ci siano musicisti, o talenti, anzi, forse al Sud ce ne sono molti di più, ma perché non ci sono soldi, o se ci sono non c'è la volontà di investirli in musica, così come magari si investono per la cura e la bellezza di altre cose. Alla musica purtroppo ci pensano solo i musicisti, che però, sempre di più, la vivono soffrendo, e patendo difficoltà e problematiche di cui altrove, all'estero soprattutto, c'è meno riscontro...negli Stati Uniti, ad esempio, dove alla musica vengono tributati maggior rispetto e maggiore serietà, che sarebbe bene ci fossero in maggior quantità anche qui, visto il gran numero di talenti su cui possiamo contare, ma che spesso se ne vanno. Per non parlare poi, a riprova del talento che l'Italia è in grado di offrire, degli artisti stranieri di origine italiana, che sono davvero innumerevoli, ad esempio Pino Palladino, Paolo Nutini, o Michael Bublè. Pensa che la mamma di Michael Bublè è originaria della provincia dell'Aquila. Stiamo parlando di artisti che hanno nel sangue l'Italia. 


Qual'è la tua idea di successo, di affermazione artistica? 

C) Non è detto che il successo e l'affermazione artistica coincidano. Si può essere artisti di successo, arrivare al grande pubblico, alla fama, ma con grandi lacune artistiche, senza una vera e propria realizzazione artistica a priori, cosa che è capitata e capita spesso. Esiste poi il successo artistico, che però deriva da una maturità artistica, e per essere maturi dal punto di vista artistico, beh, è necessario esserlo anche sul fronte personale, caratteriale. 

Ma tu cosa ti aspetti dal tuo futuro artistico, che cosa ti occorrerebbe per sentirti, se non realizzata, quanto meno soddisfatta, appagata artisticamente? 

C) Mi aspetto di non mollare strada facendo. Questo è la cosa fondamentale che mi aspetto da me stessa, e non deluderò le mie aspettative. Invece da ciò che c'è intorno non mi aspetto nulla, perché sono davvero tante le cose avverse, che ti possono potenzialmente remare contro, per cui per quanto tu ti possa sentire realizzata artisticamente, il successo, o la conformità ad un idea generale di successo e di affermazione, non dipende solo da te e dalle tue capacità. Subentrano altri fattori, come una trasmissione televisiva, un disco ben pubblicizzato, l'apprezzamento di una radio, una serie di passaggi obbligati che ti consentono di fare un'evoluzione, ovvero di passare dalla realizzazione della propria arte, della quale fama o non fama si può essere ampiamente soddisfatti , alla divulgazione della stessa, ad un suo apprezzamento da parte del pubblico, ma per farlo non bastano le proprie sole forze, ci vuole anche l'apporto di chi o di cosa è in grado di contribuire alla sua divulgazione. E siccome so che in questo momento arrivare alla massa, intercettare il plauso e ottenere riconoscibilità da parte di un pubblico ampio, è estremamente difficile, cerco di non aspettarmi più di tanto, per non illudermi. Mi aspetto solo di continuare a fare quello che sto facendo, anzi, di fare molto di più anche perché ho capito che cosa mi manca. A me piace cantare, per cui successo o non successo, mi aspetto di cantare...anche solo a casa mia. (ride n.d.r.

Hai detto “so cosa mi manca”... che cosa ti manca? 

C) Mi mancano diverse cose, tra cui la spontaneità nel riuscire a scrivere una canzone, la facilità di mettermi su uno strumento e trasformare i pensieri in musica, in armonia, in melodia, in testo. Io dentro di me sento tanto questa mancanza, perché ci ho provato tante volte ma di fronte alle difficoltà e all'impossibilità di poterlo fare ho sempre lasciato perdere. Adesso invece sono in una fase in cui alla consapevolezza di non riuscirci ancora del tutto, vi è la voglia e la determinazione di continuar a provare, di imparare...per cui mi applico e mi impegno molto più di prima, e appena ho un'idea o un pensiero per la testa lo appunto, nella speranza che un giorno si possa ricollegare ad una nota, ad una melodia e diventare una canzone. Per che se avrò la possibilità di lasciare qualcosa agli altri, vorrei poter lasciare qualcosa di mio, un pezzo di me. La voce è importante, l'interpretazione è fondamentale e a volte è persino in grado di regalare una “versione” di un brano riconoscibile tra molte e magari anche più apprezzabile dell'originale... ma una canzone scritta da te, beh, è tutta un'altra cosa, è un qualcosa che resta anche quando tu non ci sei più. 

Che cosa significa fare musica oggi in Italia, vivere della propria musica? 

C) Vivere di musica oggi è un grande lusso. E' estremamente difficile farlo perché è difficile guadagnare con la musica, e questo spesso significa solo “campare”, sopravvivere; diviene quindi difficoltoso mettere da parte qualcosa per investire su se stessi, sul proprio perfezionamento, su un corso di musica all'estero, su un master, sulla propria strumentazione di lavoro, insomma su tutto ciò che consente, se migliorato giorno per giorno, di vivere sempre meglio di musica. E se questo è estremamente difficile qui, nella mia terra è praticamente impossibile. 

Oggi è alla ribalta, anche nel campo musicale, il concetto del reality televisivo. Tu che hai una lunga gavetta alle spalle, fatta muovendo ogni passo scrupolosamente e sacrificando ad essa ciò che sappiamo, che idea ti sei fatta di questo fenomeno? Non credi che veicoli un'idea di carriera non reale, non corretta perché non sudata e costruita giorno per giorno? 

C) Penso che questa cosa abbia contribuito a rovinare l'esistenza e l'immagine della musica nel mondo. Nel reality si da spazio agli aspetti più personali e privati di una persona, a ciò che ciascuno pensa di poter o saper dire...ma non capisco che cosa, la musica, abbia a che fare con tutto ciò. Per me la musica è altro, sono altre le sue dinamiche, ed è anche diverso il modo in cui avviene la selezione naturale all'interno del suo mondo. E' altro rispetto al mondo dei reality che essendo aperti a tutti, fanno credere che chiunque si possa presentare ed essere considerato un artista, un musicista. Invece non dovrebbe essere così. E la cosa allucinante è che si fa credere che il solo modo per fare musica sia quello, quando ci sono autori , cantanti, artisti che lottano e combattono ogni giorno e che ogni giorno si confrontano con le vere selezioni per affermare la propria arte, ben lontano da una telecamera e dall'illusione che solo davanti a questa si possa cantare... 

L'insegnamento ha un ruolo molto importante nella tua vita, come allieva in passato, e come insegnante ora. Che cosa ti ha dato, come allieva, l'insegnamento? 

C) Mi ha dato moltissimo. E i miei primi insegnanti sono stai i miei genitori, che mi hanno spronato a studiare e a conoscere sempre di più il mio dono, la mia voce. Mia madre tra l'altro è un' attrice e fin da piccola io la osservavo su palco, tra i costumi, alle prove... ed ero affascinata da quel mondo, ero sedotta dalla magia che ne emanava. Mio padre invece, anch'egli musicista, fin dai primi anni di scuola mi metteva in mano svariati LP, spronandomi, e quasi obbligandomi, ad appassionarmi ad un determinato genere musicale piuttosto che ad un altro. Mi avrebbe cresciuto volentieri a pane e hard rock, ma dopo qualche anno ho conosciuto tutto il resto! Poi è arrivato il canto, è arrivata la consapevolezza di avere una voce e la voglia di usarla, per cui cantavo costantemente, nelle feste, nei piccoli concorsi, in ogni occasione in cui la voce poteva uscire liberamente. Ho iniziato con le sigle dei cartoni animati della Walt Disney, e poi crescendo si è affinata la tecnica e si è evoluto anche il mio gusto, per cui ricordo le gite a scuola in cui sul pullman cantavo My all di Mariah Carey!! 

Che cosa si insegna nelle scuole di canto, e che cosa invece non si insegna, ma che a tuo avviso si dovrebbe insegnare? 

C) Oltre ad insegnare, si dovrebbe consigliare. Prima di essere insegnanti, siamo persone, che ricevono altre persone che si aspettano sostanzialmente consigli, su come migliorarsi con la voce, su come affrontare il proprio hobby nel canto o la propria professione. La cosa su cui però io sto insistendo molto, è cercare di far capire che non è per forza necessario cantare. Mi spiego meglio: e' vero che tutti, potenzialmente, possiamo cantare, ciascuno è nato per cantare una canzone, la propria canzone, perché il canto è un fatto naturale, un istinto. La cosa però spesso viene fraintesa, la professione cantante presuppone ben altro, e gli allievi non vengono sempre per imparare, ma per sfogarsi e per farsi ascoltare, poco consci del fatto che l'insegnante di canto non è uno psicologo. Che cosa si deve insegnare e cosa no? Beh la cosa fondamentale, al di là della tecnica che è sicuramente successiva, è capire con l'allievo se il canto è davvero un desiderio, un obiettivo di realizzazione artistica e professionale o solo un capriccio. Perché magari una persona capricciosa, poco consapevole delle proprie capacità e dei propri limiti, si infila poi in un reality e diventa pure famosa, perché non trova qualcuno che con obiettività le dica che forse il canto non è la strada giusta, e che magari si realizzerebbe meglio come cassiera al supermercato... - fragorosa risata collettiva...- La professione cantante, l'arte del canto, non è solo un hobby, o uno sfogo naturale. Questa è la prima cosa che andrebbe insegnata. 

Che cosa cerchi in un allievo, che cosa speri di trovare? 

C) La stessa cosa che io ho dato alla mia insegnante, ovvero la gioia di ricordarmi, parola per parola, tutto quello che lei mi ha detto. Una simbiosi artistica totale. Io non ho mai dimenticato nulla di ciò che le miei insegnanti mi hanno dato, sono sempre stata catturata da questo “personaggio”, da questa figura fondamentale che per me è stata il mezzo per arrivare a capire ciò che sono artisticamente. A a queste persone, nelle cui mani mi sono affidata completamente, io ho detto “ok, questa è la mia voce, ditemi quello che devo fare”... Ho trattato sempre il mio insegnante con rispetto e devozione, attenta a cogliere e selezionare poi tutto quello che mi è potuto servire, che mi ha potuto plasmare artisticamente. Ecco io mi aspetto questo da un allievo, e a volte si ottiene, a volte capita di guardare negli occhi un ragazzo, una ragazza, e cogliere in quella gioia, me stessa a quindici anni, quando andavo a scuola di canto per un' ora alla settimana, e quell'ora era per me il momento più bello, in cui potevo farmi rapire completamente dalla musica, in cui mi sembrava di avere tutto dalla vita. 


Il tuo rapporto col Gospel, come e dove nasce? 

C) E' nato nel 2004, quando ho conosciuto il maestro Nehemiah Hunter Brown, un reverendo americano, insegnante della Florence Gospel Choir, con cui io ho fatto un seminario di una paio di mesi, allorché mi sono ritrovata a cantare in un coro di dieci persone, e a mettere in discussione ciò che io pensavo del Gospel, l'immagine che avevo della musica del Signore, che fino a quel momento per me era stata “Osanna nell'alto dei cieli”, la domenica mattina in chiesa. Durante gli incontri, il maestro ci spiegava realmente cosa fosse, cosa sia il Gospel...una preghiera, unita ad una melodia meravigliosa, legata al blues, al soul, generi che tra l'altro hanno sempre smosso in me le emozioni più grosse. E per me è stata un' esperienza straordinaria, in cui ho conosciuto un diverso modo di pregare, ed in cui ho creduto momentaneamente in Dio, uso questa espressione perché io fondamentalmente non sono credente, o quanto meno non da un punto di vista istituzionale, religioso. E' un paradosso, perché io canto Gospel pur non essendo una credente osservante. Però credo nella preghiera, credo nelle persone che pregano. Il fatto che io non preghi il Signore, che non sia una religiosa praticante, non mi impedisce di amare questo mondo, di amare la gente che prega. Io prego per certe cose, non mi rivolgo al Signore, ma mi rivolgo alla Vita, a me stessa, mi rivolgo alle persone in cui credo... 

Per finire, che ruolo giocano le esperienze della vita, quelle emotive, sul canto, sull'interpretazione? 

C) Giocano un ruolo fondamentale. Io capisco e sottoscrivo l'espressione “dimmi come canti e ti dirò chi sei”, perché il canto è lo specchio dell'anima, per cui se sto bene canto bene, se sto male... dovrei cantare male, ma non sempre è così perché nel mio caso la musica spesso compie una magia: dentro di me, riesco a tramutare le esperienze negative, in fattori e stimoli positivi, per cui alcuni stati d'animo, terribili, non hanno mai peggiorato il mio modo di cantare, lo hanno semmai arricchito, migliorato, perché ho capito come trasformare le emozioni dentro di me... le esperienze della vita sono fondamentali, rappresentano la tua storia, il tuo vissuto, ciò che ti fa stare bene e ciò che ti fa stare male, ed in base a cui tu sei la persona che sei, e l'artista che sei... non esistono bravi artisti ma cattive persone, se una persona è cattiva....sotto sotto non ci deve essere molta arte, tuttalpiù una cattiva persona può aspirare ad essere un bravo esecutore, nient'altro. L'arte ti insegna a convertire la cattiveria ricevuta e le brutte esperienze della vita, in un qualcosa di positivo, in una grinta maggiore sul palco, in una maggiore emotività, in una maniera più efficace di arrivare al pubblico. E' come se il canto fosse una sorta di rivalsa nei confronti delle sberle che si prendono nella vita. Il canto mi ha sempre fatto andare avanti, ha sempre rappresentato, per me, l'ottimismo, ha sempre azzerato, in me, la tristezza, e mi ha sempre fatto ricominciare da capo.


Valla Reunion 7 giugno 2010
Claudia D'Ulisse
Victory (©Yolanda Adams)


matteo picco

domenica 27 marzo 2011

Grande festa Italia-Australia "Porte aperte in cascina"

Ci sono occasioni in cui è bello ricordarsi che si possono regalare delle emozioni a chi è meno fortunato di noi...ci sono occasioni - anche - in cui ci si può rendere conto di quanta gioia sia possibile donare a chi è in grado di lasciarsi andare senza essere irretito da una serie di schemi e di convenzioni: chi è in grado di guardare il mondo con gli occhi di un bambino...
Così nasce la nostra partecipazione alla festa organizzata da "Athla ONLUS", e promossa da Gianni Minuti Muffolini, che è stato in grado di creare un evento benefico e coinvolgere tanti artisti per regalare una giornata speciale a questi ragazzi e agli amici australiani.
La Corale ha fatto show...concentrando in una esibizione di mezz'ora il repertorio più "tirato" allo stato attuale dell'arte, e facendo battere le mani, ballare, saltare e cantare tutti gli spettatori della struttura che accoglieva il concerto. E' stato particolarmente bello vedere quali effetti produca il Gospel su una platea per la maggior parte anglofona...ed incredibile vedere quella ragazza australiana che conosceva i brani di Israel Houghton e Yolanda Adams e li cantava a squarciagola sotto il palco, come un "nostro" potrebbe cantare ad un concerto di Vasco Rossi; o come la stessa ragazza rapidamente imparasse i brani di nostra produzione e li riuscisse a cantare al secondo giro del Tema.
Fantastica la prestazione del Coro, seppur con qualche problema tecnico, dovuto al fatto che è difficilissimo accogliere un coro gospel in una situazione "tipo rassegna" di gruppi eterogenei: ma gli sforzi di Gianni, insieme a quelli di Hernan, e di tutti i ragazzi del coro hanno consentito di lasciare una bella impronta all'interno di questa iniziativa promossa da Athla Onlus.


Insieme ai diciotto coristi della "Valla", gli eccezionali Hernan Brando e Claudia D'Ulisse, (a breve on line l'intervista a quest'ultima), cantanti professionisti, ma soprattutto preziosi amici, che fanno parte da oramai circa 4 anni del complesso ingranaggio che si chiama Corale Universitaria Lorenzo Valla!
Questa la scaletta:
- My desire (©Kirk Franklin)
- Lord you are good (©Israel Houghton)
- Feel the Spirit (©Francesco Mocchi)
- The Miracle of LIfe (©Francesco Mocchi)
- Victory (©Yolanda Adams)
- Shackles (©MaryMary)
- I'm Happy (©Francesco Mocchi)
Esperienza da ripetere...

domenica 6 marzo 2011

Le nostre interviste: HERNAN BRANDO

In Argentina, in una certa Argentina, quella dei “barrios”, delle strade sterrate ricolme di vita, quella dei giovani che inseguono a piedi chilometri e chilometri di ferrovia per andare a scuola, e dei vecchi che la ferrovia l'hanno vista arrivare per primi, quando ancora il Sudamerica era solo “l'America...”, la musica e l'arte sono la più valida alternativa alla povertà di speranze. Non è insolito, quindi, che un bambino, un ragazzo, un uomo, cresca affamato di cultura, di conoscenza, imbevuto di quei suoni e di quei colori che fanno del Sudamerica uno sterminato e straordinario palcoscenico.

Hernan Brando su questo palcoscenico vi è nato.

Hernan, quindici anni in Italia, un' enorme quantità di concerti in tutto il paese (persino in Vaticano davanti al Papa), anni di esperienza nel Gospel, migliaia di copie vendute della tua canzone “Beneath the sunshine” insieme ai Solo Singers, due dischi ("Gospel Made in Italy", "A different taste") prodotti dalla Warner Music insieme alla Corale Universitaria Lorenzo Valla, concerti con la Omnia Symphony Orchestra del Maestro Bruno Santori, un altro disco di successo con gli Hotel Buenavida entrato nelle più prestigiose classifiche musicali Europee (prodotto da Joe T Vannelli), apparizioni televisive, singoli in radio... insomma, oggi ti senti più un bambino, un ragazzo, o un uomo di musica?

Hernan) Un bambino. Assolutamente. - ride- Penso che il giusto atteggiamento da avere nei confronti della musica sia quello di sentirsi sempre bambini. Quando inizi a credere di essere diventato un adulto, sei già morto... per cui è conveniente credere di essere sempre degli eterni bambini, avere un atteggiamento naif, aperto a tutto quello che la musica ti può portare, per poter lasciarsi sempre meravigliare da essa, anche perché è una strada sempre in salita... (oggi sono un po' filosofo...) - ride-

Musicisti si nasce o si diventa?

H) Questa è una bella domanda...musicisti si nasce e si diventa, entrambe le cose. Non esiste musicista che non abbia avuto una predisposizione genetica, così come succede per altri mestieri e discipline dell'uomo. Si nasce musicisti, ma "bravi" lo si diventa. Non tanto o non solo con lo studio, bensì con il tempo dedicato al proprio strumento anche oltre l'esercitazione... ad esempio sul palco. C'è gente che passa la vita a studiare pur odiando il proprio strumento... costui o costei non diventerà mai un bravo o una brava "musicista", perché la condizione fondamentale per esserlo è quella di amare la musica, e anche le sue finalità...il fine stesso della musica.

E qual'è il fine della musica?

H) Il fine della musica è mettere in vibrazione le corde dell'anima, sollecitare le nostre emozioni a trecentosessanta gradi, tanto quelle belle quanto quelle brutte... quelle che ci trasmettono gioia, ma anche quelle che ci fanno paura...
Questo è il fine dell'arte in generale, ossia portare l'uomo a superare se stesso, attraverso la manipolazione dei sentimenti. Anche la musica serve proprio a questo, a manipolare le nostre emozioni per farci sentire vivi.

Senti, tu hai detto che ci sono musicisti che passano la vita a studiare, odiando però il proprio strumento, o comunque con un atteggiamento di negatività, nei confronti di se stessi e, aggiungo io, anche nei confronti degli altri. Ti chiedo, si può essere bravi musicisti ma cattive persone?

H) No. Questo non è possibile. Se si è una cattiva persona non si arriverà mai ad essere un bravo musicista, perché un bravo musicista è principalmente un comunicatore, e la persona cattiva spesso si trattiene, nasconde dentro di sé alcune emozioni ed alcune parti del proprio io che non vengono espresse, per cui non potrà mai essere un bravo comunicatore, e quindi un vero "Musicista".

Quindi Musica significa anche positività, generosità di sentimenti, e quindi altruismo?

H) Si, ma è anche altruismo verso se stessi. Nella sfera dell'altruismo, poniamo anche come significato di “altrui” anche “il noi stessi”, per cui rivolgiamo la musica anche verso noi stessi.
Se uno, in prima persona, non provasse il piacere di fare musica per il piacere di comunicare sarebbe tutto vano, mancherebbe qualcosa nel processo del “fare musica”, sarebbe un processo incompleto. Bisogna essere realmente sinceri con le proprie emozioni per poterne suscitare altre negli altri.

Si può essere musicisti, cantanti, senza pubblico?

H) Si certo. Ci sono esempi di geni della musica e dell'arte che non hanno mai avuto un pubblico davanti. Diciamo però che la finalità della musica non sarebbe completa in questo caso, perché una delle finalità dell'arte in sé è la condivisione. Ma lo si può essere tranquillamente, musicisti, cantanti senza pubblico. In questi casi non esiste miglior pubblico che se stessi.

Ricordi un momento preciso della tua vita in cui hai deciso di essere un cantante o in cui hai capito che lo avresti voluto essere?

H) Ci sono vari momenti, piccoli grandi momenti.
Mi ricordo quando da bambino mi regalarono il mio primo vinile, per me era un mistero enorme come uscisse fuori il suono da questo pezzo di plastica. Volevo arrivare al segreto nascosto in questo disco, dunque la prima cosa che decisi fu quella di cercare di capirlo. Capire da dove venissero quelle emozioni che provavo, perché quel suono mi “rigirasse” così lo stomaco.
E' stata una specie di scalata, una scoperta graduale in cui una cosa mi ha portato ad un'altra, che a sua volta mi ha portato ad un'altra ancora, di continuo...é così che diventi un musicista.
Ce ne sono stati tanti di momenti in cui ho deciso di "iniziare", così come ci sono ancora oggi tanti momenti in cui si decide di "continuare" ad essere musicisti, anche se questo non è facile.
Anzi, con la crisi socio culturale che stiamo attraversando è forse più difficile decidere di continuare ad essere musicisti piuttosto che scoprire o capire di esserlo.
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Quindi ci sono stati momenti in cui hai deciso di smettere o quantomeno hai pensato che fosse il caso di smettere?

H) Certo. Ci sono stati momenti di pausa, in cui la vita mi ha portato a seguire altre strade, con la sfortuna di diventare anche "bravo" in quello che facevo. Queste “alternative” mi avevano in un certo senso illuso... ma poi alla fine il mio Io più profondo mi ha presentato il conto ed eccomi tornato in carreggiata. Probabilmente se io non avessi avuto queste pause, oggi mi ritroverei ad un punto più inoltrato nel mio percorso di evoluzione musicale, o magari semplicemente non sarei il musicista che oggi sono diventato.

Che cosa vuol dire fare musica oggi, in Italia?

H) Vuole dire sapersi ribellare, saper lottare. Vuol dire credere ciecamente nell'obiettivo artistico e sociale della musica... perché la situazione è davvero difficile, e sempre più difficilmente si riesce a farlo. Diventa sempre più difficile "credere".
Tuttavia quello che stiamo vivendo non è nient'altro che una crisi che precede un cambiamento, e se ci tocca vivere in quest'epoca bisogna farsi coraggio e superare ogni ostacolo, fino a scoprire che la lotta stessa fa parte dell'esperienza artistica.
Contro cosa si lotta?
H) Uuuhhh...contro tante cose; contro gli aspetti più miserabili dell'essere umano. Si lotta contro il tempo, perché oramai la gente non ha più tempo da dedicare alle proprie emozioni. Si lotta contro l'egoismo, contro le persone che non hanno talento e che quindi devono ricorrere a mille mezzucci per affermarsi. Si lotta contro la mancanza di merito.

Ti riferisci ai tuoi colleghi o alla così detta "gente in generale"?

H) Mi riferisco a chiunque manchi di bontà. In particolar modo a tanti "musicanti" in giro per il mondo che non posso considerare "colleghi", perché io chiamo "collega" chi la musica la vive come me, coloro che hanno qualcosa da dire e sanno come dirlo, ovvero i comunicatori, quelli sono i miei colleghi.
Chi considera il proprio ego più importante della propria missione di artista, chi non ha il talento della comunicazione e nonostante ciò si pavoneggia del contrario per poi ricorrere a mezzucci per ottenere ciò che vuole... beh, quelli hanno solo il mio disprezzo... quindi la mia totale indifferenza.
Ecco, bisogna lottare contro la mancanza di meritocrazia. A causa di moltissimi fattori socio culturali tipici di questa società il nostro è un paese divenuto molto arretrato da questo punto di vista. La mancanza di meritocrazia la si vede in ogni settore, e pertanto anche nell'ambiente musicale, specialmente nelle “sfere alte”... è strano come in questa povera e martoriata Italia più si va in alto e più si scopre che c'è meno merito. Prendiamo ad esempio alcune case discografiche: spessissimo (ed è capitato anche a me) il primo contatto tra un discografico e un artista è affidato a figure dalle qualifiche e dalle competenze piuttosto dubbie, persone che magari fino a poco tempo prima hanno fatto tutt'altro nella vita. Ormai chiunque si professa talent scout. Spesso è proprio la loro naturale mancanza di competenza e di sensibilità artistica a non consentire all'artista, magari meritevole, di "superare il primo step all'interno dell'industria" e quindi di essere preso in considerazione da parte dei “vertici”. In questo modo tanti artisti perdono l'opportunità di diffondere la propria arte, proprio per colpa della mancanza di merito (malattia tipicamente italiana) del talent scout di turno. Quante volte la mancanza di talento degli addetti ai lavori ha stroncato (o quanto meno rallentato) la carriera a persone meritevoli? La mancanza di meritocrazia in questo paese ha fatto davvero una strage nella cultura.
Ma le dinamiche stanno cambiando e ci troviamo alle soglie di un cambiamento socio culturale di dimensioni epocali. Presto non ci sarà più bisogno di certa gente e gli artisti potranno diffondere la propria arte in libertà, senza intermediari. Il successo o il fallimento saranno determinati solo dal valore artistico dell'opera, una specie di "selezione naturale". E questa rivoluzione, ormai iniziata, si nasconde tra le trame della rete... Internet.
In questo senso sono molto positivo.

Senti, metà della tua vita l'hai vissuta in Italia, ma ricordi che cosa volesse dire fare musica in Argentina, o cosa pensi che voglia dire fare musica in Sudamerica, un altro mondo rispetto all'Italia e magari anche rispetto a questi difetti strutturali di cui hai parlato?

H) Fare musica in Argentina, ma anche in tutti i paesi sottosviluppati economicamente, significa sperare.
Sperare magari in un riscatto sociale. Significa tirare fuori gli attributi per cercare di cambiare la propria sorte. Questa è una componente fortissima del “fare musica” in Sudamerica e mi riferisco anche alla mia esperienza personale. Fare musica in una terra disagiata significa cercare di cambiare le cose, avere anche uno spirito rivoluzionario, rivoluzionare se stessi, in primis. Vol dire amare la propria terra e al contempo avere il coraggio di lasciarla per un obiettivo nobile e alto.

Quindi pensi che da dove provieni ci sia maggior talento o perlomeno maggior voglia di sviluppare il proprio talento rispetto ai paesi benestanti?

H) Beh si, decisamente, se non altro perché ci sono più argomenti di cui parlare, per cui lottare.
La miseria, da quando l'arte è arte, ha sempre generato nell'uomo la voglia di analizzare il “perché” di essa. L'arte ha anche questa funzione, quella di spiegare alla gente il “perché” delle cose, e quando ci si trova in situazioni di estremo bisogno ci sono molti più “perché” da spiegare.
Questo non vuol dire che nei climi agiati non ci siano menti meravigliose, colme di sensibilità artistiche straordinarie.
L'arte è universale e tale è il suo linguaggio, per cui è riduttivo dire che ci sia più arte in una situazione disagiata piuttosto che in una agiata. E' però una questione di "quantità" di soggetti dedicati all'arte che fa la differenza. Chi è veramente un artista riesce ad esprimere la potenza del proprio messaggio in qualsiasi situazione socio economica si possa trovare, in quanto il messaggio dell'arte è un messaggio universale appunto, a prescindere dal contesto sociale.
Ma di certo nella miseria e nel bisogno c'è più "urgenza" di trasmettere certi messaggi, e di conseguenza è molto più facile trovarvi molti più talenti.

Eppure dalla musica argentina, sudamericana in genere, traspare molta gioia di vivere, moltissima speranza, un forte senso di pace nei confronti dell'esistenza...

H) E' la pace che si trova quando oramai non c'è più alcuna forza se non quella della speranza... molte volte ci si arrende alla realtà, e nella resa si trova la pace, ahimè purtroppo questa cosa succede spesso da quelle parti.
Molta della gioia della musica sudamericana e dettata da una sorta di rassegnata ma serena accettazione. Non tutta la musica sudamericana trabocca di allegria o di gioia di vivere a prescindere da tutto... prendiamo il tango ad esempio, non esiste alcun tango allegro, poiché il tango manifesta la solitudine dell'uomo nei confronti dell'universo, la delusione, i sentimenti più profondi dell'animo umano che a volte coincidono con quelli più brutti.

Quanto c'è in te, nella tua vocalità, nel tuo mondo artistico, di Sudamerica?

H) Ma guarda, io vengo da un paese che è un po' particolare. L'Argentina è un paese molto esterofilo, con le antenne costantemente rivolte verso ciò che succede in tutto il mondo. Riceve molteplici influenze da tutte le parti e quindi anche il suo linguaggio musicale è estremamente contaminato.
Per cui io sono sicuramente influenzato dalla musica tradizionale argentina, ma di più dalla "musica del mondo" che ascoltavo in Argentina.
Il discorso è invece un po' diverso per altri paesi sudamericani per mille altri motivi sociali. Prendiamo ad esempio un cubano: un cubano è musicalmente più "isolato" dal resto del mondo ("isolato" inteso paradossalmente come metafora), ovvero vive molto di più all'interno della propria musica senza troppe contaminazioni (qualcuno potrebbe dire per fortuna!), perché ha forse una tradizione musicale molto più forte e più radicata, sicché è molto più facile trovare un argentino che faccia Gospel piuttosto che un cubano che lo faccia, perché l'argentino cresce ascoltando "anche" il Gospel.

Tu come sei entrato in contatto col mondo del Gospel?

H) Per caso. Come per tutte le cose belle è successo per caso. In principio grazie ad una collaborazione con Luca Orioli (della trasmissione televisiva Passaparola), che ha prodotto “Beneath the sunshine”, il mio primo disco Gospel. Il brano fu presentato con molto successo al Milano Gospel Festival nel 2007 e in quella occasione conobbi Francesco Mocchi, direttore della Corale universitaria Lorenzo Valla, che mi propose di cantare come solista insieme a loro. In seguito a quell' incontro mi si è aperto letteralmente un mondo: due dischi con la Warner, concerti dappertutto, tantissimi concerti che io ricordo uno ad uno... un' esperienza ed una collaborazione che nella mia vita hanno lasciato un segno artistico ed umano profondissimo. Ho conosciuto ciascun membro di questo coro, e con molti di loro è nata una bella amicizia. Le esperienze vissute insieme a questi ragazzi e gli aneddoti che potrei raccontare sono ormai infiniti. Ho sempre ricevuto molto amore da loro e ne ho sempre dato loro altrettanto. Io rispetto il loro lavoro, cerco di capire sempre le loro esigenze. Ho imparato moltissimo dal punto di vista umano in questi anni di musica insieme. Ho ciascuno dei loro sorrisi stampati nel profondo dell'anima, e sarò loro sempre infinitamente grato per aver ricevuto l'opportunità e il privilegio di cantare insieme ogni volta. Ad ogni concerto mi fanno sentire una persona molto fortunata. Non posso che adorarli, tutti e ciascuno.

Che cos'è il Gospel per te, che cosa vuol dire cantare il Gospel?

H) Cantare il Gospel significa...(pausa)

E solo un linguaggio musicale, uno stile?

H) No, non è solo uno stile o un linguaggio musicale. Il Gospel è una musica particolare, perché tira fuori la verità che c'è in te. Non puoi cantare Gospel se in te non c'è il “gene” della ricerca della verità, perché canti alla gioia universale, canti allo stare insieme...canti davvero alla vita, alle cose belle della vita, attraverso un linguaggio formatosi negli anni grazie alla fede, all'esigenza di credere, ma più che di credere soltanto in un Dio, alla voglia di credere in qualcosa: ecco, nel Gospel canti la gioa di credere in qualcosa.

E tu in che cosa credi, soprattutto?

H) Credo nell'uomo. Credo che, nonostante la sua naturale cattiveria, in fondo abbia la la possibilità di superarsi. Credo che un giorno l'uomo potrà essere l'esempio di se stesso; credo che alla fine di questo lungo periodo buio di aggressione verso se stesso riuscirà a tirare fuori il meglio di sé, non solo per la propria salvezza ma anche per quella del pianeta in cui vive.

Senti, per finire, il momento più alto e il momento più basso, sinora, nella tua carriera...

H) Sai che io non ragiono in questi termini? Non mi piacciono i trofei, non mi piace pensare ai momenti di gloria e nemmeno a quelli di sconforto, poiché credo che tanto gli uni quanto gli altri facciano parte fisiologicamente di una carriera.
Se devo proprio scegliere, posso ricordare "attimi" belli e "attimi" brutti: tra quelli belli...ogni volta che vedo che il pubblico partecipa, ecco questo è un piccolo grande trionfo, che siano dieci persone o migliaia non cambia, ogni occasione in cui vedo la partecipazione, la condivisione della musica e del messaggio musicale, è per me un "attimo bello”. Tra gli attimi di sconforto posso citare il periodo in cui facevo altro rispetto alla musica. Durante la pausa di cui ti parlavo mi sono visto allontanato da me stesso per mia stessa scelta e questa è la cosa più brutta che ti possa capitare, non seguire la propria strada. Già, la cosa peggiore è "scegliere" di allontanarsi da se stessi.
Io dico sempre che la felicità è una scelta, per cui bisogna non solo decidere di non allontanarsi da se stessi... bisogna soprattutto decidere di "non essere infelici".

matteo picco