domenica 6 marzo 2011

Le nostre interviste: HERNAN BRANDO

In Argentina, in una certa Argentina, quella dei “barrios”, delle strade sterrate ricolme di vita, quella dei giovani che inseguono a piedi chilometri e chilometri di ferrovia per andare a scuola, e dei vecchi che la ferrovia l'hanno vista arrivare per primi, quando ancora il Sudamerica era solo “l'America...”, la musica e l'arte sono la più valida alternativa alla povertà di speranze. Non è insolito, quindi, che un bambino, un ragazzo, un uomo, cresca affamato di cultura, di conoscenza, imbevuto di quei suoni e di quei colori che fanno del Sudamerica uno sterminato e straordinario palcoscenico.

Hernan Brando su questo palcoscenico vi è nato.

Hernan, quindici anni in Italia, un' enorme quantità di concerti in tutto il paese (persino in Vaticano davanti al Papa), anni di esperienza nel Gospel, migliaia di copie vendute della tua canzone “Beneath the sunshine” insieme ai Solo Singers, due dischi ("Gospel Made in Italy", "A different taste") prodotti dalla Warner Music insieme alla Corale Universitaria Lorenzo Valla, concerti con la Omnia Symphony Orchestra del Maestro Bruno Santori, un altro disco di successo con gli Hotel Buenavida entrato nelle più prestigiose classifiche musicali Europee (prodotto da Joe T Vannelli), apparizioni televisive, singoli in radio... insomma, oggi ti senti più un bambino, un ragazzo, o un uomo di musica?

Hernan) Un bambino. Assolutamente. - ride- Penso che il giusto atteggiamento da avere nei confronti della musica sia quello di sentirsi sempre bambini. Quando inizi a credere di essere diventato un adulto, sei già morto... per cui è conveniente credere di essere sempre degli eterni bambini, avere un atteggiamento naif, aperto a tutto quello che la musica ti può portare, per poter lasciarsi sempre meravigliare da essa, anche perché è una strada sempre in salita... (oggi sono un po' filosofo...) - ride-

Musicisti si nasce o si diventa?

H) Questa è una bella domanda...musicisti si nasce e si diventa, entrambe le cose. Non esiste musicista che non abbia avuto una predisposizione genetica, così come succede per altri mestieri e discipline dell'uomo. Si nasce musicisti, ma "bravi" lo si diventa. Non tanto o non solo con lo studio, bensì con il tempo dedicato al proprio strumento anche oltre l'esercitazione... ad esempio sul palco. C'è gente che passa la vita a studiare pur odiando il proprio strumento... costui o costei non diventerà mai un bravo o una brava "musicista", perché la condizione fondamentale per esserlo è quella di amare la musica, e anche le sue finalità...il fine stesso della musica.

E qual'è il fine della musica?

H) Il fine della musica è mettere in vibrazione le corde dell'anima, sollecitare le nostre emozioni a trecentosessanta gradi, tanto quelle belle quanto quelle brutte... quelle che ci trasmettono gioia, ma anche quelle che ci fanno paura...
Questo è il fine dell'arte in generale, ossia portare l'uomo a superare se stesso, attraverso la manipolazione dei sentimenti. Anche la musica serve proprio a questo, a manipolare le nostre emozioni per farci sentire vivi.

Senti, tu hai detto che ci sono musicisti che passano la vita a studiare, odiando però il proprio strumento, o comunque con un atteggiamento di negatività, nei confronti di se stessi e, aggiungo io, anche nei confronti degli altri. Ti chiedo, si può essere bravi musicisti ma cattive persone?

H) No. Questo non è possibile. Se si è una cattiva persona non si arriverà mai ad essere un bravo musicista, perché un bravo musicista è principalmente un comunicatore, e la persona cattiva spesso si trattiene, nasconde dentro di sé alcune emozioni ed alcune parti del proprio io che non vengono espresse, per cui non potrà mai essere un bravo comunicatore, e quindi un vero "Musicista".

Quindi Musica significa anche positività, generosità di sentimenti, e quindi altruismo?

H) Si, ma è anche altruismo verso se stessi. Nella sfera dell'altruismo, poniamo anche come significato di “altrui” anche “il noi stessi”, per cui rivolgiamo la musica anche verso noi stessi.
Se uno, in prima persona, non provasse il piacere di fare musica per il piacere di comunicare sarebbe tutto vano, mancherebbe qualcosa nel processo del “fare musica”, sarebbe un processo incompleto. Bisogna essere realmente sinceri con le proprie emozioni per poterne suscitare altre negli altri.

Si può essere musicisti, cantanti, senza pubblico?

H) Si certo. Ci sono esempi di geni della musica e dell'arte che non hanno mai avuto un pubblico davanti. Diciamo però che la finalità della musica non sarebbe completa in questo caso, perché una delle finalità dell'arte in sé è la condivisione. Ma lo si può essere tranquillamente, musicisti, cantanti senza pubblico. In questi casi non esiste miglior pubblico che se stessi.

Ricordi un momento preciso della tua vita in cui hai deciso di essere un cantante o in cui hai capito che lo avresti voluto essere?

H) Ci sono vari momenti, piccoli grandi momenti.
Mi ricordo quando da bambino mi regalarono il mio primo vinile, per me era un mistero enorme come uscisse fuori il suono da questo pezzo di plastica. Volevo arrivare al segreto nascosto in questo disco, dunque la prima cosa che decisi fu quella di cercare di capirlo. Capire da dove venissero quelle emozioni che provavo, perché quel suono mi “rigirasse” così lo stomaco.
E' stata una specie di scalata, una scoperta graduale in cui una cosa mi ha portato ad un'altra, che a sua volta mi ha portato ad un'altra ancora, di continuo...é così che diventi un musicista.
Ce ne sono stati tanti di momenti in cui ho deciso di "iniziare", così come ci sono ancora oggi tanti momenti in cui si decide di "continuare" ad essere musicisti, anche se questo non è facile.
Anzi, con la crisi socio culturale che stiamo attraversando è forse più difficile decidere di continuare ad essere musicisti piuttosto che scoprire o capire di esserlo.
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Quindi ci sono stati momenti in cui hai deciso di smettere o quantomeno hai pensato che fosse il caso di smettere?

H) Certo. Ci sono stati momenti di pausa, in cui la vita mi ha portato a seguire altre strade, con la sfortuna di diventare anche "bravo" in quello che facevo. Queste “alternative” mi avevano in un certo senso illuso... ma poi alla fine il mio Io più profondo mi ha presentato il conto ed eccomi tornato in carreggiata. Probabilmente se io non avessi avuto queste pause, oggi mi ritroverei ad un punto più inoltrato nel mio percorso di evoluzione musicale, o magari semplicemente non sarei il musicista che oggi sono diventato.

Che cosa vuol dire fare musica oggi, in Italia?

H) Vuole dire sapersi ribellare, saper lottare. Vuol dire credere ciecamente nell'obiettivo artistico e sociale della musica... perché la situazione è davvero difficile, e sempre più difficilmente si riesce a farlo. Diventa sempre più difficile "credere".
Tuttavia quello che stiamo vivendo non è nient'altro che una crisi che precede un cambiamento, e se ci tocca vivere in quest'epoca bisogna farsi coraggio e superare ogni ostacolo, fino a scoprire che la lotta stessa fa parte dell'esperienza artistica.
Contro cosa si lotta?
H) Uuuhhh...contro tante cose; contro gli aspetti più miserabili dell'essere umano. Si lotta contro il tempo, perché oramai la gente non ha più tempo da dedicare alle proprie emozioni. Si lotta contro l'egoismo, contro le persone che non hanno talento e che quindi devono ricorrere a mille mezzucci per affermarsi. Si lotta contro la mancanza di merito.

Ti riferisci ai tuoi colleghi o alla così detta "gente in generale"?

H) Mi riferisco a chiunque manchi di bontà. In particolar modo a tanti "musicanti" in giro per il mondo che non posso considerare "colleghi", perché io chiamo "collega" chi la musica la vive come me, coloro che hanno qualcosa da dire e sanno come dirlo, ovvero i comunicatori, quelli sono i miei colleghi.
Chi considera il proprio ego più importante della propria missione di artista, chi non ha il talento della comunicazione e nonostante ciò si pavoneggia del contrario per poi ricorrere a mezzucci per ottenere ciò che vuole... beh, quelli hanno solo il mio disprezzo... quindi la mia totale indifferenza.
Ecco, bisogna lottare contro la mancanza di meritocrazia. A causa di moltissimi fattori socio culturali tipici di questa società il nostro è un paese divenuto molto arretrato da questo punto di vista. La mancanza di meritocrazia la si vede in ogni settore, e pertanto anche nell'ambiente musicale, specialmente nelle “sfere alte”... è strano come in questa povera e martoriata Italia più si va in alto e più si scopre che c'è meno merito. Prendiamo ad esempio alcune case discografiche: spessissimo (ed è capitato anche a me) il primo contatto tra un discografico e un artista è affidato a figure dalle qualifiche e dalle competenze piuttosto dubbie, persone che magari fino a poco tempo prima hanno fatto tutt'altro nella vita. Ormai chiunque si professa talent scout. Spesso è proprio la loro naturale mancanza di competenza e di sensibilità artistica a non consentire all'artista, magari meritevole, di "superare il primo step all'interno dell'industria" e quindi di essere preso in considerazione da parte dei “vertici”. In questo modo tanti artisti perdono l'opportunità di diffondere la propria arte, proprio per colpa della mancanza di merito (malattia tipicamente italiana) del talent scout di turno. Quante volte la mancanza di talento degli addetti ai lavori ha stroncato (o quanto meno rallentato) la carriera a persone meritevoli? La mancanza di meritocrazia in questo paese ha fatto davvero una strage nella cultura.
Ma le dinamiche stanno cambiando e ci troviamo alle soglie di un cambiamento socio culturale di dimensioni epocali. Presto non ci sarà più bisogno di certa gente e gli artisti potranno diffondere la propria arte in libertà, senza intermediari. Il successo o il fallimento saranno determinati solo dal valore artistico dell'opera, una specie di "selezione naturale". E questa rivoluzione, ormai iniziata, si nasconde tra le trame della rete... Internet.
In questo senso sono molto positivo.

Senti, metà della tua vita l'hai vissuta in Italia, ma ricordi che cosa volesse dire fare musica in Argentina, o cosa pensi che voglia dire fare musica in Sudamerica, un altro mondo rispetto all'Italia e magari anche rispetto a questi difetti strutturali di cui hai parlato?

H) Fare musica in Argentina, ma anche in tutti i paesi sottosviluppati economicamente, significa sperare.
Sperare magari in un riscatto sociale. Significa tirare fuori gli attributi per cercare di cambiare la propria sorte. Questa è una componente fortissima del “fare musica” in Sudamerica e mi riferisco anche alla mia esperienza personale. Fare musica in una terra disagiata significa cercare di cambiare le cose, avere anche uno spirito rivoluzionario, rivoluzionare se stessi, in primis. Vol dire amare la propria terra e al contempo avere il coraggio di lasciarla per un obiettivo nobile e alto.

Quindi pensi che da dove provieni ci sia maggior talento o perlomeno maggior voglia di sviluppare il proprio talento rispetto ai paesi benestanti?

H) Beh si, decisamente, se non altro perché ci sono più argomenti di cui parlare, per cui lottare.
La miseria, da quando l'arte è arte, ha sempre generato nell'uomo la voglia di analizzare il “perché” di essa. L'arte ha anche questa funzione, quella di spiegare alla gente il “perché” delle cose, e quando ci si trova in situazioni di estremo bisogno ci sono molti più “perché” da spiegare.
Questo non vuol dire che nei climi agiati non ci siano menti meravigliose, colme di sensibilità artistiche straordinarie.
L'arte è universale e tale è il suo linguaggio, per cui è riduttivo dire che ci sia più arte in una situazione disagiata piuttosto che in una agiata. E' però una questione di "quantità" di soggetti dedicati all'arte che fa la differenza. Chi è veramente un artista riesce ad esprimere la potenza del proprio messaggio in qualsiasi situazione socio economica si possa trovare, in quanto il messaggio dell'arte è un messaggio universale appunto, a prescindere dal contesto sociale.
Ma di certo nella miseria e nel bisogno c'è più "urgenza" di trasmettere certi messaggi, e di conseguenza è molto più facile trovarvi molti più talenti.

Eppure dalla musica argentina, sudamericana in genere, traspare molta gioia di vivere, moltissima speranza, un forte senso di pace nei confronti dell'esistenza...

H) E' la pace che si trova quando oramai non c'è più alcuna forza se non quella della speranza... molte volte ci si arrende alla realtà, e nella resa si trova la pace, ahimè purtroppo questa cosa succede spesso da quelle parti.
Molta della gioia della musica sudamericana e dettata da una sorta di rassegnata ma serena accettazione. Non tutta la musica sudamericana trabocca di allegria o di gioia di vivere a prescindere da tutto... prendiamo il tango ad esempio, non esiste alcun tango allegro, poiché il tango manifesta la solitudine dell'uomo nei confronti dell'universo, la delusione, i sentimenti più profondi dell'animo umano che a volte coincidono con quelli più brutti.

Quanto c'è in te, nella tua vocalità, nel tuo mondo artistico, di Sudamerica?

H) Ma guarda, io vengo da un paese che è un po' particolare. L'Argentina è un paese molto esterofilo, con le antenne costantemente rivolte verso ciò che succede in tutto il mondo. Riceve molteplici influenze da tutte le parti e quindi anche il suo linguaggio musicale è estremamente contaminato.
Per cui io sono sicuramente influenzato dalla musica tradizionale argentina, ma di più dalla "musica del mondo" che ascoltavo in Argentina.
Il discorso è invece un po' diverso per altri paesi sudamericani per mille altri motivi sociali. Prendiamo ad esempio un cubano: un cubano è musicalmente più "isolato" dal resto del mondo ("isolato" inteso paradossalmente come metafora), ovvero vive molto di più all'interno della propria musica senza troppe contaminazioni (qualcuno potrebbe dire per fortuna!), perché ha forse una tradizione musicale molto più forte e più radicata, sicché è molto più facile trovare un argentino che faccia Gospel piuttosto che un cubano che lo faccia, perché l'argentino cresce ascoltando "anche" il Gospel.

Tu come sei entrato in contatto col mondo del Gospel?

H) Per caso. Come per tutte le cose belle è successo per caso. In principio grazie ad una collaborazione con Luca Orioli (della trasmissione televisiva Passaparola), che ha prodotto “Beneath the sunshine”, il mio primo disco Gospel. Il brano fu presentato con molto successo al Milano Gospel Festival nel 2007 e in quella occasione conobbi Francesco Mocchi, direttore della Corale universitaria Lorenzo Valla, che mi propose di cantare come solista insieme a loro. In seguito a quell' incontro mi si è aperto letteralmente un mondo: due dischi con la Warner, concerti dappertutto, tantissimi concerti che io ricordo uno ad uno... un' esperienza ed una collaborazione che nella mia vita hanno lasciato un segno artistico ed umano profondissimo. Ho conosciuto ciascun membro di questo coro, e con molti di loro è nata una bella amicizia. Le esperienze vissute insieme a questi ragazzi e gli aneddoti che potrei raccontare sono ormai infiniti. Ho sempre ricevuto molto amore da loro e ne ho sempre dato loro altrettanto. Io rispetto il loro lavoro, cerco di capire sempre le loro esigenze. Ho imparato moltissimo dal punto di vista umano in questi anni di musica insieme. Ho ciascuno dei loro sorrisi stampati nel profondo dell'anima, e sarò loro sempre infinitamente grato per aver ricevuto l'opportunità e il privilegio di cantare insieme ogni volta. Ad ogni concerto mi fanno sentire una persona molto fortunata. Non posso che adorarli, tutti e ciascuno.

Che cos'è il Gospel per te, che cosa vuol dire cantare il Gospel?

H) Cantare il Gospel significa...(pausa)

E solo un linguaggio musicale, uno stile?

H) No, non è solo uno stile o un linguaggio musicale. Il Gospel è una musica particolare, perché tira fuori la verità che c'è in te. Non puoi cantare Gospel se in te non c'è il “gene” della ricerca della verità, perché canti alla gioia universale, canti allo stare insieme...canti davvero alla vita, alle cose belle della vita, attraverso un linguaggio formatosi negli anni grazie alla fede, all'esigenza di credere, ma più che di credere soltanto in un Dio, alla voglia di credere in qualcosa: ecco, nel Gospel canti la gioa di credere in qualcosa.

E tu in che cosa credi, soprattutto?

H) Credo nell'uomo. Credo che, nonostante la sua naturale cattiveria, in fondo abbia la la possibilità di superarsi. Credo che un giorno l'uomo potrà essere l'esempio di se stesso; credo che alla fine di questo lungo periodo buio di aggressione verso se stesso riuscirà a tirare fuori il meglio di sé, non solo per la propria salvezza ma anche per quella del pianeta in cui vive.

Senti, per finire, il momento più alto e il momento più basso, sinora, nella tua carriera...

H) Sai che io non ragiono in questi termini? Non mi piacciono i trofei, non mi piace pensare ai momenti di gloria e nemmeno a quelli di sconforto, poiché credo che tanto gli uni quanto gli altri facciano parte fisiologicamente di una carriera.
Se devo proprio scegliere, posso ricordare "attimi" belli e "attimi" brutti: tra quelli belli...ogni volta che vedo che il pubblico partecipa, ecco questo è un piccolo grande trionfo, che siano dieci persone o migliaia non cambia, ogni occasione in cui vedo la partecipazione, la condivisione della musica e del messaggio musicale, è per me un "attimo bello”. Tra gli attimi di sconforto posso citare il periodo in cui facevo altro rispetto alla musica. Durante la pausa di cui ti parlavo mi sono visto allontanato da me stesso per mia stessa scelta e questa è la cosa più brutta che ti possa capitare, non seguire la propria strada. Già, la cosa peggiore è "scegliere" di allontanarsi da se stessi.
Io dico sempre che la felicità è una scelta, per cui bisogna non solo decidere di non allontanarsi da se stessi... bisogna soprattutto decidere di "non essere infelici".

matteo picco

2 commenti:

Anonimo ha detto...

HERNAN= talento!!!.....muy buena nota!

Anonimo ha detto...

Hernan è davvero un grandissimo artista.